Stamattina sono andato al cimitero. Il cielo grigio come di prammatica, i vialetti ordinati, il darsi la mano delle generazioni – la vecchia che va dal marito, il vecchio dalla moglie, la bambina e il nonno che passeggiano verso la tomba della nonna.È un esercizio spirituale andare al cimitero, e tanto di più lo è andarci al mattino, all’inizio della giornata, quando la brama di noi stessi e della vita ci ha da poco aperto gli occhi, quando ancora non è schiava di nessun oggetto particolare ma tutta ancora aperta – in potenza. È un esercizio spirituale perché *esercita*, perché nell’attenzione scarna nella pratica scarna nei gesti scarni e usati esercita alla cura, al prendersi cura oggettivo e senza ritorno. Non è un proclama, non sono nobili intenzioni, è un esercizio: bagna la spugna, lava la lapide, asciuga la lapide, metti un mazzetto di fiori nuovi, recita il requiem. Tutto il vissuto si condensa lì, tutto il futuro muove da lì: what might have been and what has been/ point to one end, which is always present.
Di fronte alla furia iconoclasta degli ultimi giorni, di fronte alla recrudescenza di un’opposizione dall’interno alla presunta vergogna occidentale è a questo patto, che viene da pensare, a questo patto imposto dalla realtà – un patto prendere o lasciare, su cui non abbiamo alcun potere contrattuale, ma solo la facoltà di aderirvi o respingerlo. È il patto con la tradizione, nel senso più neutro possibile di trasmissione.
Noi nasciamo in una tradizione. Chiunque, a qualunque latitudine, nasce in un mondo tràdito, trasmesso, consegnato. Con cura, con disattenzione, con supponenza, in mille altre maniere – questo mondo che è l’alveo in cui inevitabilmente ci formiamo viene prima di noi e ci viene consegnato collettivamente dalla generazione che ci precede. Ed è proprio verso le generazioni che ci hanno preceduto che la furia iconoclasta dei rivoltosi e i distinguo pensosi di molti intellettuali si stanno rivolgendo.
Ma questa furia e questi rilievi pensosi dicono di una distanza affettiva grave riguardo alla propria tradizione. Dicono di un “grazie” oggettivo e mancato, di un irrealismo proiettato in un eterno “se fosse accaduto”. È patologico. E dopo decenni e decenni di vergogna per la storia, anziché di critica della storia, come ogni patologia diffusa questa condizione sta prendendo il sopravvento.
Non è questione di perfezione di una cultura, o di una sua inemendabilità, ma della nostra posizione oggettiva nel divenire della storia. Senza la storia che ci ha preceduti – la grande storia dei popoli e delle battaglie, la microstoria degli uomini e delle famiglie – senza questa storia, noi non saremmo qui. Nessuno di noi: i rivoltosi che abbattono le statue, i pensosi che fanno slalom tra il “questo sì e questo no” osservando la storia della propria cultura come dagli spalti di un teatro e tutti noialtri, che siamo in campo senza sapere né chi giochi ancora con noi, né quale sia il risultato della partita.
La storia umana non è storiografia, non è una selezione di fonti per il proprio racconto. La storia è anzitutto il portato collettivo di vite vissute prima di noi e che dobbiamo assumerci sulle spalle per potervi operare. A questa oggettività si deve dire grazie, convintamente, perché senza affettività non c’è critica possibile, ma soltanto demolizione.
Chiunque usi dei cascami dell’impero d’occidente tenendosi fuori da un’adesione affettiva non può farne critica, ma solo demolizione. E non per ragioni etiche, ma proprio per difetto di comprensione. Se non si ama, non si vede. Se si ha vergogna dei propri padri, non si potrà vedere altro che le loro vergogne. Senza pietà per il passato, senza una vera speranza per il futuro.
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