Forme della parola, forme dell’esperienza

Adesso che il Covid sembra essersi messo a lato, e che l’agenda mediatica ci ha risospinti a farci parlare delle parole solite sfruttando qualche folcloristica variazione sul tema nella loro rappresentazione plastica, riprende tra i più avvertiti, che spesso appaiono i più illusi, il dibattito sulla crisi della democrazia.

Un’altra parola-feticcio, come la gran parte delle parole che usiamo nel nostro quotidiano, non appena usciamo dal perimetro dei rapporti vis-à-vis per avventurarci in quello dei “rapporti sociali”. Democrazia, dunque, e stracciamoci le vesti. Come per il razzismo. Per il fascismo. Il “femminicidio”. E si potrebbe continuare. Tutte rappresentazioni senza oggetto, in cui ciò di cui parliamo – su cui ci accapigliamo, costruiamo e distruggiamo rapporti, alleanze, amicizie – semplicemente non esiste, ma è la parola stessa; quella parola che dovrebbe interrogare – non definire, ma interrogare – il fenomeno.

È una questione di esperienza. Non avendo più alcuna esperienza della vita, del nesso tra parola emozione azione che rende la vita umana, usiamo le parole come veicoli di significato, invece che come significati in sé. Usiamo le parole senza pregare, con la presunzione di padroneggiarle e di disporle in modo utile a un senso da noi già colto.

Non è così. Parlare, e scrivere, è un’avventura, un raid nell’inarticolato. Expertus potest credere, cantavano i monaci medievali, ma senza esperienza non si può credere. Se uno non ama le parole, se non ne sente la corporeità, allora sarà facile negarne la carica affettiva, la significanza intrinseca, e crederle sostituibili, credere che eliminandole si possano accomodare le sorti del mondo a un nuovo significato già deciso fuori dal discorso. Ma dire “fuori dal discorso” vuol dire fuori dal logos: fuori cioè da dio e dalla ragione.

Per questo, prima di difendere o di attaccare le parole, dovremmo tutti chiederci di quale esperienza vorremmo farci distruttori o difensori. Chiederci se è un monumento un’istituzione una memoria che vogliamo salvare, o la possibilità di incarnare e tramandare significati che nascono in una data parola, e che senza di essa sono destinati a morire. Chiederci insomma se ci stiamo eliotianamente dannando nell’uso di parole sempre più raffinate per sentimenti sempre più rozzi, o se – innamorandoci di una parola – vogliamo finalmente abbandonarci ad essa, chiederle chi sia, dove ci voglia condurre, che cosa abbia da raccontarci.