Tra gli effetti collaterali dei mesi faticosi che il pianeta e noi suoi abitanti ci siamo trovati a vivere, si nota nel dibattito pubblico – con una più marcata accentuazione sui social rispetto ai media «tradizionali» – l’inasprirsi della presunta dicotomia tra diritti personali e bene comune. Una dicotomia talmente falsa e fuori da ogni tradizione culturale da essere viziata fin dal principio nei termini usati, che non sono quelli da me posti qui sopra ma più abitualmente quelli di diritti «individuali» in opposizione al bene «collettivo». Un delitto perfetto in cui due fantocci si combattono tra loro, nulla così portando ai sostenitori di ambo le parti, meno che mai una reciproca comprensione delle istanze difese.
Accusano, i fautori del neo-collettivismo, la scarsa responsabilità civile o sociale degli individualisti, la loro rozza e becera reattività alle norme di salute pubblica imposte dal Governo in questo periodo e allo stato di emergenza rinnovato nei giorni scorsi. Ma – lasciando pure a latere il fatto che per parlare di responsabilità civile occorrerebbe l’esistenza di una civitas e per parlare di responsabilità sociale occorrerebbe l’esistenza di una societas – che cos’è che i difensori della salute pubblica rischiano di dimenticare, nel contrastare le oggettive derive sentimentali dei così detti individualisti? Che cosa, assumendo la parte per il tutto, fa dimenticare di ciò che – per quanto confuse e rozze possano essere – le istanze «individualiste» portano in sé?
Direi niente di più e niente di meno del principio giuridico su cui si fonda l’intera società europea, un principio nato con Giuseppe d’Arimatea che chiede indietro a Pilato il cadavere di Cristo e culminato nel cuore del Medioevo nella Magna Charta e più tardi in quella formuletta da tutti conosciuta come habeas corpus. Una formuletta che non sancisce il capriccio del singolo vittorioso contro il benessere della collettività, ma stabilisce al contrario – ed è singolare che l’atto giuridico che ne prende il nome sia del 1679, a cristianità già largamente compromessa – il solo fondamento possibile di ogni comunità. E cioè che ogni singola persona sia indisponibile a sé stessa e – soprattutto – al prossimo, sia questo prossimo l’arrogante avversario di paese o sia invece la massima autorità statale.
È un principio niente affatto individualista, ma personalista – perché afferma a un tempo il concetto di persona e la necessità della persona di essere parte di una comunità. E se la formulazione legislativa è relativamente tarda, di un’epoca appunto in cui la cristianità cominciava già la sua sfioritura, il sostrato di vita che vi sottende è invece il culmine dell’espressione della civiltà cristiana, è la fondazione di quella laicità oggi tanto invocata quanto incompresa nelle sue origini cristiane e nella separazione tra cose dello Stato – gli ordinamenti – e cose di dio – il corpo e l’anima di ogni singolo uomo e di ogni singola donna.
Per questo, soltanto per questo, e non per un gusto di disputa, bisogna fare ben attenzione a sminuire o tacciare di narcisismo e irresponsabilità quelle che sono invece manifestazioni di una percezione di sé e del mondo più sana e concreta, che va al più corretta e governata, ma nient’affatto irrisa o coartata. Attenzione, perché le concezioni antropologiche vivono molto più nell’ortoprassi che non nell’ortodossia e sono legate a pratiche che vanno mantenute e salvaguardate, soprattutto nel loro nesso tra contenuto semantico ed esperienza. Attenzione perciò, perché – se si vuole realmente conservare il raggiungimento più importante degli ultimi duemila anni – possiamo ben chiedere e in certi casi pretendere delle limitazioni all’autodeterminazione, ma a solo a condizioni ben definite. In primo luogo, dev’essere chiara la natura eccezionale dei provvedimenti richiesti; e un’eccezione prevede sempre un inizio, una fine e dei chiari criteri di verifica della sua necessità. In second’ordine, dev’essere chiara la loro proporzionalità, la loro adeguatezza allo scopo prefisso; e anche qui, va perciò anzitutto identificato uno scopo chiaro e non vago, una strada ben definita per provare a raggiungerlo e dei chiari criteri di verifica intermedi per valutare se la cosa sta funzionando. Infine, dev’essere ricercata, come da sempre insegna la sapienza della Chiesa (odiosa sunt restringenda), ogni modalità per minimizzare la durezza e la durata del sacrificio di ciascuno.
Tutto questo, lo ripeto, non per il gusto di difendere un astratto individualismo, ma anche e soprattutto perché in quelli che in momenti storici confusi possono apparire come diritti secondari, ciò che viene salvato è in realtà proprio il vivere comune, messo al riparo e «al di qua» di qualsiasi oscillazione del potere. Perché le forme del potere s’innalzano e crollano, e nessuna società umana è eterna, questo ve lo ricordate, no?
(© Daniele Gigli – Condivisione autorizzata a fini non commerciali citando la fonte)