C’è una ferita nella conoscenza che accompagna l’uomo da sempre, un punto sospeso tra desiderio e possesso dell’essere, tra dominio e libertà. Un punto, una sorta di spirito calcolatore per cui non sappiamo ammettere il darsi degli eventi innanzi a noi, il darsi stesso dell’essere, prima di averlo incasellato, prima di avergli dato un nome.
È il genio proprio della tecnica, il genio di un Occidente che imparando ad analizzare, a razionalizzare, a quantificare i fenomeni ha reso vero il sogno di Prometeo, la capacità di rubare agli dèi non tanto la scienza della natura, quanto il suo dominio. Non sembra infatti un caso che sia stato l’Occidente, più dell’Oriente avvezzo a questi mezzi fin dalle dispute teologiche della prima era cristiana, ad aver spinto la capacità di analisi, possesso, utilizzo e riproduzione della natura fino ai risultati che tutti abbiamo intorno, che fondano il nostro stile di vita, quello che percepiamo come benessere e – almeno fino a non troppo fa, anche una certa epica, come poteva essere la corsa alla conquista della Luna.
Che cosa manca, allora? Che cosa, se a tutt’oggi un virus, un’entità che gli studiosi non sanno ancora se definire vivente, è in grado di porre in crisi, in conflitto permanente tutte le branche specialistiche del sapere, incapaci di dare una risposta definitoria e definitiva su come funzioni e come si vinca? Che cos’è che va in crisi, quando la tecnica – quella che ambiguamente chiamiamo scienza – viene meno?
Viene da chiedersi con Eliot se vi sia, se vi possa essere continuità o per lo meno contiguità tra informazione e conoscenza, e tra conoscenza e sapienza. Che cos’è il fiume? si chiede all’inizio del terzo Quartetto. E la risposta non è soltanto una definizione, ma un divenire di percezioni: il fiume perciò ha sì una sorta di natura, quella di «un forte dio bruno», ma è anche «dapprima riconosciuto come frontiera;/ utile e inaffidabile come trasportatore di commerci;/ infine solo un problema da affrontare per i costruttori di ponti.» Nella sua definizione entrano pian piano, con il progredire della tecnica e della capacità umana di usarlo, di sfruttarlo, una certa sufficienza, una scontatezza che piega l’intero ai dati parziali dell’analisi, dimenticandone la natura di intero. Una dimenticanza naturale, perché ogni memoria è frutto di un’ascesi, ma esiziale. «Risolto il problema», continua Eliot, «il dio bruno è quasi dimenticato/ dagli abitanti delle città – ma sempre, comunque, implacabile,/ serbante di rabbie e di stagioni, distruttore, memoria/ di quello che l’uomo ha voluto scordare».
Che cosa sceglie l’uomo ad ogni suo inoltrarsi nell’analisi, che cosa sceglie di cercare e che cosa, più o meno incoscientemente, sceglie di scordare? Perché, anche se ci piace pensarlo un banale problema per costruttori di ponti, in realtà «inonorato, impropiziato,/ dagli adoratori delle macchine» il fiume «aspetta, guarda e aspetta» e basta una qualunque settimana di pioggia intensa in un qualunque novembre per ricordarcelo.
Così è di noi, sembra, così il Prometeo che in noi, l’Adamo e l’Eva che è in noi. Ad ogni inoltrarci nell’analisi, quello che cerchiamo non è la conoscenza, né tantomeno la sapienza, ma il possesso. Ad ogni inoltrarci nell’analisi, quello che scegliamo di dimenticare, quello che ci illudiamo di non sapere, è che l’ordine delle cose non lo detta l’uomo, e che nemmeno lo conosce. Perciò ogni volta che questa evidenza sotterrata e soffocata risolleva il capo, la nostra reazione è isterica, irrazionale e sproporzionata. Non ammettiamo il fatto di non possedere la realtà, o meglio, che l’unica via per possederla sia di ammetterne la natura di dono.
Narra Giovanni che nell’ultima cena Tommaso obietti a Gesù che se non sanno dove lui stia andando, tanto meno possono sapere la strada per arrivarvi. La risposta di Gesù è interessante, non solo per chi crede: «Io sono la via, la verità e la vita». Via, verità, vita. In quest’ordine. Prima viene l’essere che ci si pone innanzi: e stamane tutti, credenti e non credenti, straccioni e possidenti, runner e vigili urbani, aprendo gli occhi abbiamo trovato apparecchiato intorno a noi un grande spettacolo non fatto da noi e su cui non abbiamo alcun reale potere. Un grande spettacolo fatto di incombenze, scadenze, bollette, decreti, distanziamento sociale e via dicendo. Uno spettacolo, l’universo intorno a noi, che dobbiamo infine rassegnarci a vivere prima di capirlo. La via, appunto. Una via spesso impervia e con scarsa visibilità, di cui solo vivendo capiamo di tanto in tanto qualcosa e mai tutto: la verità. E che solo così potrà donarci – invece di una sfatta rassegnazione, o di una livorosa rabbia – la vita, il piacere del singolo istante, con tutto il peso del passato che lo ha portato e del futuro che promette.
Questo, ci piaccia o meno, è l’ordine delle cose e solo in quest’ordine si può godere della vita anche nel timore e nell’incertezza, senza divenire schiavi di quello che non sappiamo né di quello che pensiamo di sapere. A noi la scelta, istante dopo istante, amicizia dopo amicizia, se aiutarci l’un l’altro a fare memoria di quel che siamo o se scegliere invece di aiutarci a dimenticare, isterici e livorosi, sconfitti e timorosi.
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