C’è un momento, quando sogniamo, in cui a un tratto il sogno “esagera”. Un momento in cui una situazione perfettamente credibile, per quanto amara dolorosa o ripugnante possa essere, sconta un eccesso per cui il nostro doppio onirico di colpo si rende conto, non è più in grado di sostenere la sospensione dell’incredulità e si sveglia.
Questo meccanismo è lo stesso delle arti diacroniche, quelle la cui prima fruizione è diluita in un arco temporale e non immediata, come lo è invece nella pittura, nella scultura o nell’architettura. Un film, una poesia, un romanzo, una pièce di teatro, un brano musicale: tutte queste creazioni artistiche hanno un primo impatto che va oltre l’immediato, che è durata, e richiedono perciò fin dal primo incontro la nostra partecipazione a un patto implicito: richiedono che noi si dia loro un credito preventivo, una partecipazione preventiva; che appunto – nelle parole di Coleridge – si sospenda l’incredulità.
Proprio per questa struttura intrinseca, queste arti sono soggette perciò alla disillusione, che non è – come da linguaggio comune – la scoperta di una verità diversa da quella si credeva, ma l’abdicazione alla propria parte nella necessaria costruzione della realtà artistica. E quando la realtà vissuta non è più credibile, quando la sceneggiatura zoppica, allora gli attori – che non possono fare miracoli – finiscono col recitare in modo pessimo, anche i più talentuosi. E noi ci scopriamo alieni rispetto allo spettacolo, passa il godimento del farne parte.
Ecco, tutto questo – grandezza della letteratura e della critica letteraria, che ci consentono di saperlo – vale anche per il teatro del mondo, siano i teatri off delle nostre singole vite quotidiane, o sia quella grande kermesse che è la storia universale. Come nei sogni, come nelle arti diacroniche, anche nella realtà-realtà è necessaria – per conoscere e godere, non per mentire o fingere o illudersi – una sospensione dell’incredulità. E anche nella realtà-realtà, se la sceneggiatura non viene costantemente attentamente e amorevolmente scritta e rivista, prima o poi si apre una maglia, uno strappo, il montaliano anello che non tiene. E a noi passa la voglia di fare la nostra parte affinché lo spettacolo funzioni: la sospensione dell’incredulità diventa troppo gravosa da sostenere rispetto al godimento che ne traiamo. In rari casi sono lo sceneggiatore e il regista, a essere così bravi da provocare apposta questo sentimento (le poetiche così dette “disturbanti”) e gli attori recitano male su loro indicazione, non per frustrazione. Anche in questo caso, però, l’effetto straniante è dato dal diaframma tra trama percepita e realtà personale. E in entrambi i casi – sciatteria del copione o eccessiva raffinatezza del meccanismo straniante – passa la voglia di stare al gioco: quasi malgrado sé, ci si “sveglia”. Succede nei sogni. Succede nelle arti. Succede nella vita. L’eccesso d’arte e la pochezza d’arte conducono a un solo punto: l’impossibilità di restare nel gioco, sia come attori che come pubblico; il bisogno umanissimo e fecondo di crearne un altro, di viverne un altro. Un nuovo gioco, un nuovo mondo.
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