Un nuovo immaginario

Uno come me, volubile irrequieto presuntuoso, psichicamente fragile, nelle sue ubbie psichicamente fragili l’aveva presentito. Il 10 marzo 2020, ma già nelle settimane precedenti, l’aveva presentito e – nei suoi modi più o meno indisponenti – detto. «Non aprite quella porta», non apritela, perché là fuori non c’è un vasto ignoto ma un’angusta gabbia.
La gabbia della ragione e della sua parodia.
La parola d’ordine venne fuori subito: «sacrificio», un «piccolo sacrificio». Che cos’è un piccolo o anche grande sacrificio di fronte a un bene superiore? Quale fosse il bene, non metteva conto discuterne, perché «la casa brucia» e quando la casa brucia…
Così il sacrificio venne a visitarci, a noi che non teniamo più niente per sacro. La porta era aperta, e una volta di più non era la presunta sostanza delle cose a dettare il passo, ma la loro sostanza reale: il nome. Perché i nomi hanno un potere, una forza capace di sostenere o sovvertire la realtà che nominano. E il sacrificio ha una sua natura, che è anzitutto religiosa: è sacrum facere, è un atto che rende il gesto in sé – con la sua fatica, le rinunce che chiede, lo sforzo che esige – puro. Il fine è sacrum facere, rendere sacro. E quando il sacro – o meglio, la sua parodia – entra nel vivere civile non per fondarlo ma per piegarlo, non può più esservi discorso razionale. Uno sforzo ha dei caratteri chiari: un fine ben identificato, una strada da percorrere e un criterio di verifica della sua efficacia. Il sacrificio, come atto di donazione e spoliazione di sé, non ha questi caratteri: non serve rimarcare, penso, quanto sia grottesco che non un dio, ma un ordinamento civile – legittimo o meno che sia sul piano giuridico – si senta in diritto di richiederlo.
Lo sapeva benissimo la saggezza della chiesa medievale, piuttosto restia a parlare di sacrificio, quanto propensa a parlare di coercizioni, ordinandole peraltro a un fine di volta in volta chiaro e definibile: è sua la massima odiosa sunt restringenda, entrata nel diritto canonico e in quello pubblico di questa Europa sempre più stanca. Che oggi non si chieda più conto nemmeno idealmente dei piani prospettati e delle azioni intraprese dai governi, in merito alla pandemia ma non solo; che un tale chiedere conto venga anzi sempre più relegato nel campo dell’inaffidabilità, dell’irresponsabilità civile; che sia negata e vilipesa la struttura naturaliter politica dell’uomo, come tale portato per necessità e per dovere a interessarsi di tutto; ecco, tutto questo sembra certificare una volta di più il lungo crepuscolo di una certa civiltà, di un certo tipo di convivenza, di un certo ideale fondativo del patto sociale.
Ma di fronte a una società in frantumi, non serve puntellare macerie già cadute in terra; raccoglierne alcune, forse, riedificare con esse mura instabili che possano essere «casa». Serve un nuovo immaginario, un immaginario che dia forma a una nuova vita. Ci sono verità eterne da cui attingere. C’è una bellezza che persiste quasi nonostante noi. Il ritorno all’eterno non è un ritorno al passato. È la caccia a nuove immagini. Nuovi nomi. Nuova realtà.

(© Daniele Gigli – Condivisione autorizzata a fini non commerciali citando la fonte)