Il viaggio dei Magi

(Una poesia di Eliot, Journey of the Magi, 1927)

«Avemmo freddo lungo il cammino,
il tempo peggiore dell’anno
per un viaggio, e quale viaggio!
Le strade fonde, il tempo crudo,
il cuore vivo dell’inverno».

E i cammelli piagati, recalcitranti, livide le zampe,
affondati in una melma di neve.
Più di una volta rimpiangemmo
i palazzi d’estate sui pendii, e le terrazze,
e le fanciulle di seta che portavano il sorbetto.
Poi i cammellieri, le bestemmie, le maledizioni
e le fughe, e pretese donne e vino,
i fuochi dei bivacchi spenti, l’assenza di ricoveri,
le città ostili e i paesi nemici,
e i villaggi sporchi che montavano su i prezzi:
avemmo ore difficili.
Così preferimmo viaggiare di notte,
dormendo a tratti,
con le voci negli orecchi che cantavano
come non fosse tutto che follia.

Quindi scendemmo all’alba in una valle mite,
umida, ai margini della neve, profumata di piante,
con un torrente e un mulino a battere il buio
e tre alberi sotto il cielo basso.
E un vecchio cavallo bianco galoppò via nel prato.
Venimmo infine a una taverna – i tralci della vite intorno all’architrave,
sei mani da una porta aperta giocavano pezzi d’argento,
e piedi scalciavano otri vuoti.
Ma non avevano informazioni, così andammo.
E arrivati a sera, non un istante prima del dovuto,
trovammo il posto. Il che fu – direte voi – soddisfacente.

Fu tutto questo molto tempo fa, ricordo,
e lo farei di nuovo, ma voi considerate
questo, considerate
questo: fummo condotti lungo quella strada a una
Nascita o a una Morte? Ci fu una Nascita, sicuro,
la vedemmo, nessun dubbio. Avevo già visto nascita e morte,
ma le avevo pensate diverse. Fu questa Nascita
dura e amara per noi, sofferente come la Morte, la nostra stessa morte.
Tornammo ai nostri luoghi, ai nostri regni,
ma ormai a disagio nelle antiche leggi,
tra genti aliene avvinghiate ai propri dèi.
Sì, sarei lieto adesso di una nuova morte.

(© Daniele Gigli, 2007-2022 per la traduzione – Condivisione autorizzata a fini non commerciali citando la fonte)