Nel 1955 Wystan H. Auden pubblica The Shield of Achilles, che contiene al suo interno la sequenza Horae Canonicae, un racconto a volo d’aquila della storia della civiltà tra desiderio mimetico e sacrificio, tra individuo e comunità, tra etica e morale.
In questo frammento, ispirato all’ora sesta della liturgia cristiana delle ore, è il miracolo del lavoro a prendere il centro della scena: il miracolo del lavoro ben fatto come amore e partecipazione dell’uomo alla creazione, come scoperta di sé e del proprio posto nel mondo.
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Non serve vedere che cosa uno fa
per sapere se è la sua vocazione,
c’è solo da guardare i suoi occhi:
un cuoco che mesce una salsa, un chirurgo
che fa un’incisione primaria,
l’impiegato che compila una bolla,
portano indosso la stessa espressione rapita,
dimentichi di se stessi in una funzione.
Come è bello,
questo sguardo adeso all’oggetto.
Ignorare le dee dell’appetito,
disertare i temibili altari
di Rhea, Afrodite, Diana, Demetra,
e pregare piuttosto San Foca,
Santa Barbara, San Saturnino,
o chi ne sia il patrono,
per essere degni del loro mistero –
che passo prodigioso è stato fatto.
Dovrebbero esserci monumenti, dovrebbero esserci odi
per gli eroi senza nome che furono i primi,
il primo a scordarsi del pranzo
per sfregare la pietra,
il primo a restare celibe
collezionando conchiglie.
Dove saremmo senza di loro?
Selvaggi, ancora, indomestici, ancora
a vagare tra le foreste senza
una consonante per i nostri nomi,
schiavi di Madre Natura, senza
una nozione di città
senza nessun mediatore
per questo mezzogiorno, per questa morte.
(© Daniele Gigli, 2022 per la traduzione – Condivisione autorizzata a fini non commerciali citando la fonte)