«Fare della memoria una benedizione, / imparare dalla perdita la rinfrescante sottrazione del desiderio». Come nelle pagine dei padri della Chiesa, come nei versi di Dana Gioia nella sua The Lost Garden (2001): conoscere il passato irredimibile, non volere finalmente «altro che ciò che è stato».
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Se rivedremo mai questi giardini,
l’estate sarà andata – la nostra estate, almeno.
Qualche altro mimo poliglotta si esibirà
di mezzo ai gelsi e altre viti
scaleranno il muro alto di mattoni fino a farlo scomparire.
Quanti sentieri attraversavano la vecchia proprietà –
questo grazioso appezzamento di più grandiosi tempi –
quanti alberi sotto i quali discutere o baciarsi,
e verde a sufficienza per ogni stato d’animo.
Quale piacere, essere tristi in simili dintorni.
Almeno a posteriori. Perché ogni dispiacere
sembra sopportabile quando è studiato da distante,
e se parliamo di privata sofferenza,
il dolore si fa parte di un racconto così ben aggiustato
da descrivere qualcun altro che porta il nostro nome.
Ancora, quando ti penso, a volte faccio un gioco.
Che cosa mai, se avessimo percorso un’altra strada, un giorno,
se un piccolo incidente ci avesse spinto altrove
al modo in cui un ciottolo gettato nel ruscello
ne cambia il corso cento miglia a valle?
Il trucco è fare della memoria una benedizione,
imparare dalla perdita la rinfrescante sottrazione del desiderio,
il non volere altro che ciò che è stato,
sapere del passato ormai perduto, ma vedere
dietro il muro un giardino ancora in fiore.
(© Daniele Gigli, 2023 per la traduzione – Condivisione autorizzata a fini non commerciali citando la fonte)