Un mondo senza materia – Su “Helgoland”

Sono le tre di una notte d’estate del 1925 quando, sull’isola di Helgoland, Werner Heisenberg ha l’intuizione decisiva che dà l’avvio alla fisica quantistica. Un’idea che l’umanità, azzarda Carlo Rovelli nel suo libro omonimo (Helgoland, Adelphi 2020, 238 pp.), «non ha ancora digerito» (p. 7).

E certamente questo libro agile e appassionante – preciso quanto si può esserlo nel tentare di divulgare nozioni così verticali e al tempo stesso godibile come un romanzo – questo libro che assomma quattro capitoli iniziali di buona fisica e tre capitoli conclusivi di pessima metafisica, mostra senz’altro come noi uomini comuni, nei nostri linguaggi comuni e abiti mentali comuni, siamo distanti dalla visione del mondo e dell’Essere che secondo Rovelli la teoria dei quanti impone alla ragione.

Distanti da questa visione del mondo e in fondo difettosi, se è vero che «la teoria dei quanti comprende la meccanica classica, e comprende la nostra usuale visione del mondo […] come un uomo che vede bene può comprendere l’esperienza di un miope che non vede il ribollire in una pentola sul fuoco» (p. 117). Miope? L’uomo che agisce come se il mondo esistesse e non come se fosse intessuto di relazioni tra niente e niente è miope? O non è piuttosto la pretesa di leggere l’intera gamma dei fenomeni fisici e relazionali, sia su grande scala che su scala microscopica, con una sola lente, a esprimere un atteggiamento idealistico che scambia l’ipermetropia con la buona vista?

Sì, perché questa è la grande scoperta che secondo Rovelli la fisica quantistica impone alla nostra concezione del mondo: il fatto che “le cose” siano per intero relazioni, che al di fuori delle relazioni non esistano e che in ultimo siano «“vuote”, nel senso che non hanno realtà autonoma» (p. 151). Ma se non esistono le cose, tanto meno esisterà il soggetto che le vede, le pensa e le agisce. Ecco allora che nel quinto capitolo – il primo dei tre capitoli più propriamente filosofici, che mentre denigrano come «metafisiche» o «idealiste», o «ingenuamente materialiste» le posizioni contraddittorie, si addentrano a loro volta in una metafisica idealista e piuttosto grossolana – ecco che per smontare il soggetto e la sua pretesa di esistere, checché ne dicano le matrici di Heisenberg, viene in soccorso nientemeno che Nāgārjuna, col quale Rovelli risponde alle nostre possibili obiezioni: «E io che vedo una stella? Esisto? No, neppure io. Chi vede la stella? Nessuno, dice Nāgārjuna. Vedere la stella è una componente di quell’insieme che convenzionalmente chiamo il mio io». Ma stiamo tranquilli, eh, perché «non c’è nessuna essenza ultima o misteriosa da comprendere, che sia l’essenza vera del nostro essere. “Io” non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcosa d’altro. Secoli di speculazione occidentale sul soggetto e sulla coscienza svaniscono come brina nell’aria del mattino» (pp. 151-152).

Dove stia andando a parare la metafisica rovelliana comincia ad apparire chiaro, ma seguiamolo, sempre mentre snocciola nessi apodittici e indimostrati come fossero mere deduzioni, perché lui no, lui con la metafisica non si sporca. Vediamo allora che anche se «noi bestiole umane (sic!) viviamo in un mondo di significati» (p. 164), questi significati, lo abbiamo visto sopra, non sono scoperte di un “io”, ma relazioni tra realtà che – Nāgārjuna docet – non esistono. E qual è il significato più universale, che dall’alba dell’umanità sostiene e spinge l’umanità nel suo vivere e pensare, nel suo muoversi e scoprire? Il finalismo, la ricerca di uno scopo. Cose da boomer: perché sua maestà Darwin ci ha mostrato che «la biosfera è formata da strutture e processi utili alla continuazione della vita» e che grazie a lui adesso ne capiamo il perché «ribaltando l’ordine di causa-effetto fra la loro utilità e la loro esistenza: la funzione (vedere, mangiare, respirare, digerire… contribuire alla vita) non è lo scopo delle strutture. È il contrario: gli esseri viventi sopravvivono perché esistono queste strutture» (pp. 166-167). Il che, per quanto discutibile, sarebbe pure legittimo, se si accettasse serenamente che quella enunciata è un’opzione idealistica e metafisica tanto quanto quelle avversate, e che tra l’altro implica nel suo svolgersi proprio quell’«assumere che la fisica sia la descrizione delle cose in terza persona» (p. 178) che poco più avanti Rovelli censura come metodologicamente errato.

Eccoci così all’assalto finale, l’assalto a quell’ “io” che è da sempre la cattiva coscienza dell’Occidente, oltre che la sua gloria, e che sempre più – secolarizzandosi il mondo – è divenuto un ospite sgradito nel pensiero alla moda. «Chi è», allora, «l’“io” che prova la sensazione di sentire, se non l’insieme integrato dei nostri processi mentali?» Che sciocche domande adolescenziali! «Chiedersi cosa sia la coscienza dopo averne dipanato i processi neurali è come chiedersi cosa sia un temporale dopo averne capito la fisica: una domanda senza senso» (p. 180).

«La vacuità di Nāgārjuna», sostiene Rovelli, «nutre anche un atteggiamento etico profondamente rasserenante: comprendere che non esistiamo come entità autonome ci aiuta a liberarci dall’attaccamento e dalla sofferenza. Proprio per la sua impermanenza, per l’assenza di ogni Assoluto, la vita ha senso ed è preziosa» (pp. 155-156). Non si capisce francamente il nesso per nulla necessario tra impermanenza, assenza di Assoluto e preziosità della vita. Anzi, quel che ne esce, è come a cercare le ragioni dell’Essere e della vita nella calcolabilità scientifica, a cercare di sciogliere il continuo nel discreto, l’unica alternativa al nichilismo radicale e al suicidio resti un volontarismo fluttuante. Continua infatti così, Rovelli: «A me come essere umano Nāgārjuna insegna la serenità, la leggerezza e la bellezza del mondo: non siamo che immagini di immagini. La realtà, inclusi noi stessi, non è che un tenue e fragile velo, al di là del quale… non c’è nulla» (p. 156).

Quale sia il nesso tra questa leggerezza nullificante e la preziosità della vita, a noi comuni mortali non è dato di comprenderlo.

(© Daniele Gigli – Condivisione autorizzata a fini non commerciali citando la fonte)